IT. LA INCLUSIONE SOCIALE DEI POVERI
Nel trattare il tema
dei poveri, della carità, dell’attenzione all’altro, si corre il rischio di
giungere ad una trattazione sterile, astratta, solo colma di buonismo. Così non
è per Papa Francesco.
La realtà dei poveri è
iscritta nella vita e nel nome stesso di Papa Francesco. Come uomo del Concilio
Vaticano II, egli ha vissuto il passaggio da una concezione ascetica della
povertà, per la quale è via alla perfezione evangelica, a una concezione
sociale, per la quale occorre migliorare lo stato dei poveri all’interno della
società stessa.
L’insegnamento della Evangelii
Gaudium rispecchia il pensiero che Papa Francesco, già da arcivescovo, ha
espresso più volte sul modo di concepire l’evangelizzazione e la missione della
Chiesa nel mondo di oggi. Nel quarto capitolo del documento (capitolo a sua
volta suddiviso in quattro parti) troviamo l’insegnamento specifico sulla
povertà. La prima sezione inizia nel § 178 con quest’affermazione: “
Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio”. A noi interessa
soprattutto la terza parte, quella sull’inclusione sociale dei poveri. Più
volte vi ricorre l’espressione d’inspirazione biblica, “ascoltare il grido dei
poveri”.
Più volte ricorre
l’espressione “opzione per i poveri”. Questa formula è assente nei documenti
del Concilio Vaticano II. Essa ebbe origine tra i Teologi della liberazione e
in seguito passò nei documenti dei vescovi dell’America Latina che la fecero
propria. Per la prima volta entra nel linguaggio magisteriale con la
Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II del 30 dicembre 1987.
In realtà già Papa
Giovanni XXIII qualche mese prima dell’apertura del Concilio Vaticano II, l’11
settembre 1962, aveva annunciato via radio: “La Chiesa si presenta quale è e
vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri”.
L’Evangelii Gaudium ci
evidenzia le motivazioni bibliche e spirituali che inducono il credente e le
comunità a interessarsi dei poveri e ad attendere alla loro promozione. Necessita
porre grande attenzione al modo in cui viene interpretato l’approccio ai
poveri. Il Papa sottolinea che la scelta dei poveri da parte della Chiesa è un
“luogo teologico”, nel senso che nessuno può, in base al suo legame con Cristo,
fare a meno dei poveri perché essi rappresentano sia l’agire di Dio
nell’incarnazione sia lo stesso Cristo che da ricco che era si è fatto povero
per arricchirci della sua povertà.
A fronte delle
sollecitazioni che il documento di Papa Francesco ci fornisce, proviamo ad
interrogarci e a trovare qualche spunto concreto.
Oggi la povertà non la
si può ridurre ad una povertà di cose, ma sono presenti molteplici
sfaccettature diverse di povertà. La risposta a queste povertà è la Carità.
Proveniamo da un
concetto di carità che era tutto fatto di cose, tant’è vero che carità era
diventata sinonimo di elemosina. Carità ed elemosina si erano identificate con
un trascinamento al basso del concetto di carità. E’ necessario dare un
corretto significato alla parola Carità, risalire la china che ha abbassato il
valore della stessa. Risalire la china vuol dire “passare dalle cose alle persone”. È un passaggio difficilissimo,
perché è più semplice, meno coinvolgente, meno complicato dare le cose. Oggi
poi è diventato difficile perché anche le cose scarseggiano, se per cose
mettiamo dentro anche il denaro. Oggi la povertà e la riduzione di risorse è
per tutti, il che significa che diventerebbe comunque problematico mantenere
questo schema (prima le cose e poi le persone), non abbiamo più una grande
possibilità di cose da mettere a disposizione. E’ necessario invece mettere n primo luogo la persona e la
capacità di ascoltare, essere lì per ciascuno facendosi carico di portare
insieme le fatiche di una storia. Questo è l’accompagnamento: il farsi
compagni, il saper ascoltare, essere presenti con attenzione, entrare in quella
sofferenza e aiutare a portarla.
Stiamo girando attorno
ad un concetto che dovrebbe traghettarci dal “fare carità” all’“essere
carità”. Finché facciamo carità siamo legati e limitati dalle risorse
materiali, l’essere carità invece ci mette nella condizione che l’unico limite
siamo noi stessi, non sono gli altri. Perché essere carità vuol dire entrare in relazione e di conseguenza
sono io personalmente e tutte le persone che sono attorno a me, che formano una
comunità, a poter essere presenti anche in maniera immateriale. Emerge quindi
una novità che ci trova impreparati: dal
concetto di carità che dipendeva solo da me, che vedeva me come soggetto, ad un
concetto il cui soggetto è la comunità.
Comunità è sempre una parola magica priva di contenuti. Va concretizzata con
quella cerchia di persone che conosciamo, che condividono con noi i temi della
fede e con le quali possiamo nei modi più informali far passare queste cose. Cosa significa pensare ad una comunità come
soggetto? Significa lavorare per cambiare i modi con cui funzionano le cose
e il primo passo è comunicare ad altri il percorso che siamo chiamati a fare
per essere davvero comunità. Non possiamo fare cose nuove con modalità vecchie.
Se voglio rivolgermi alla comunità comincerò da chi conosco della mia comunità,
dai miei contatti, dal fare piccoli progetti insieme. Per assurdo oggi
sprechiamo risorse umane, risorse economiche e di beni, di tempo; quando tutto
il mondo si collega, noi rischiamo di continuare a coltivare il nostro orticello.
È questa la mentalità delle nostre comunità? Allora l’idea è: può il mio vicino di orticello entrare nel mio ed io nel suo? Cioè possiamo trovare piccoli sistemi di corrosione di questa impostazione che ci portiamo dietro da secoli? Esistono però varie difficoltà nel creare la rete… La difficoltà di fare rete è la difficoltà di fare un piccolo programma insieme. Cosa conosce la comunità dei bisogni e dei problemi che esistono? Come facciamo a dirglielo? Quale metodo utilizzare per superare quanto fino ad ora esposto?
È questa la mentalità delle nostre comunità? Allora l’idea è: può il mio vicino di orticello entrare nel mio ed io nel suo? Cioè possiamo trovare piccoli sistemi di corrosione di questa impostazione che ci portiamo dietro da secoli? Esistono però varie difficoltà nel creare la rete… La difficoltà di fare rete è la difficoltà di fare un piccolo programma insieme. Cosa conosce la comunità dei bisogni e dei problemi che esistono? Come facciamo a dirglielo? Quale metodo utilizzare per superare quanto fino ad ora esposto?
Di certo non esistono
“metodi magici” ma da più parti viene proposto un metodo di quattro tappe: Ascoltare, Osservare, Discernere, Animare.
Ascoltare:
abbiamo bisogno di vino nuovo in otri nuovi Ci
sono delle parole del Vangelo di una grandissima attualità oggi, sono le
seguenti: «Il vino nuovo non può stare dentro gli otri vecchi, perchè
altrimenti questi si spaccano e il vino va perduto». Noi siamo in una
situazione di questo tipo: abbiamo o siamo degli otri vecchi, non per via
dell’età ma per il fatto che abbiamo una
formazione, una mentalità e una cultura che fanno fatica a incontrare le
tematiche e le problematiche degli uomini del nostro tempo. Uno degli
aspetti più urgenti della Chiesa e delle comunità cristiane è di pensare in
modo nuovo a partire da punti di vista nuovi che ci permettano di dare sulla
realtà nuovi sguardi e nuove soluzioni. L’imperativo è di imparare a
reinterpretare ciò che stiamo vivendo. Oggi
è necessario ricreare l’orizzonte per darci una direzione di marcia, o meglio
per tentare una direzione di marcia. L’unica strada possibile è rileggere il
nostro inizio e le nostre radici: tornare al Vangelo per interrogarlo e
interpretarlo in una modalità nuova, cioè con i problemi che oggi urgono. È necessario anche per un altro motivo
tornare al Vangelo, perchè dobbiamo prendere atto di un’insuccesso del
cristianesimo soprattutto nel suo livello sociale, nel livello di trasformazione delle coscienze, che
diventa poi trasformazione di convivenza. Ciò che molte volte la Chiesa e il
magistero denunciano come vizio del nostro tempo, ossia l’individualismo e l’egoismo, sono la stessa cultura che è entrata
nella Chiesa. E allora abbiamo il bisogno di tornare a quelle radici che ci
permettano di fare il salto rispetto a questa situazione di isolamento, di
separazione, di incapacità di relazione e di rifiuto dell’altro. Situazioni che
caratterizzano non solo la cultura, ma anche le comunità cristiane.
Osservare:
il Vangelo non ci stupisce più Il
Vangelo non ci stupisce più, il Vangelo non ci fa saltare sulle sedie: possiamo
leggere brani di Vangelo tra i più terribili e mantenere un’impassibiltà
totale. Significa che quelle parole ci scivolano sopra senza riuscire a
incidere dentro le nostre coscienze. Il nostro Cristianesimo è diventato un
Cristianesimo dell’individuo, tanto che i punti su cui si ritorna sempre sono
quelli della morale personale, sessuale ecc.; ma non si parla di convivenza, di
relazione e di altro. Questi ultimi valori sono la base dei precedenti e non
viceversa.
Osservare per noi deve significare che il punto di inizio e il punto di confronto non può essere un altro: la nostra coscienza deve avere come punto di riferimento Gesù Cristo e il Vangelo. Ora la coscienza non è più il luogo della responsabilità e della decisione: ciò che manca è riportare la coscienza al posto che le compete: l’assunzione di responsabilità.
Osservare per noi deve significare che il punto di inizio e il punto di confronto non può essere un altro: la nostra coscienza deve avere come punto di riferimento Gesù Cristo e il Vangelo. Ora la coscienza non è più il luogo della responsabilità e della decisione: ciò che manca è riportare la coscienza al posto che le compete: l’assunzione di responsabilità.
Discernere:
cosa ci deve dire Cristo Analizziamo
questo aspetto sotto tre aspetti del Vangelo. Il primo è quello di perdere la vita o di dare la vita, che
dobbiamo rileggere dentro le nostre situazioni: cosa vuol dire oggi perdere o dare la vita? Cosa vuol dire mettere a
disposizione la vita nei contesti e nelle situazioni nelle quali noi ci
troviamo? Questo principio definisce l’essenza di Gesù, perchè definisce la
sua realtà, la sua persona come dono fatto e che non torna indietro. Il
problema è: come noi possiamo diventare
un dono, mettere la nostra vita a disposizione gratuitament?. Una delle
possibilità di tradurre tutto ciò è introdurre una cultura diversa e una
lettura della nostra realtà umana, sociale, economica, finanziaria, politica a
partire da altri presupposti. La comunità cristiana dovrebbe innanzitutto
fermarsi un attimo e chiedersi in che
cultura vive e quale rapporto di contrasto o di vicinanza ci sia con il
principio del dare la vita. Qui c’è una contraddizione radicale: la cultura che
noi abbiamo, che respiriamo, che portiamo dentro inconsapevolmente, non è
quella del dare la vita, ma del prendere la vita. Non è quella del gratuito, ma
del caro, del costoso, del pagamento, del riuscire, dell’avere successo e del
raggiungere i primi posti al di fuori di ogni valutazione etico-morale o di
altro tipo. Allora abbiamo bisogno di sederci intorno a un tavolo e di valutare,
a partire dalle azioni, come noi stessi e
le nostre comunità possiamo inserirci in una cultura del dono, del dare la
vita. Il secondo principio è la
Croce, il modo in cui Cristo ha perso la vita. È Gesù stesso che dice ai
discepoli: se non prendete o portate la Croce tutti i giorni non potrete essere
miei discepoli. Ma come viene interpretata la Croce normalmente? Viene legata a
una forma di sofferenza: la Croce è la sofferenza che ognuno di noi incontra
nella vita e quindi la malattia, la disgrazia ecc. Non è esattamente questa la
Croce Cristiana: la morte e la sofferenza non toccano solo i Cristiani, ma
tutti gli uomini, anche i musulmani, gli induisti, gli atei. Non è quella la
Croce di Cristo, allora perchè è morto? Cristo è morto sulla Croce perchè ha
così tanto provocato gli uomini e le
autorità e i potenti del suo tempo, da deciderne la morte. Gesù Cristo è morto,
innanzitutto, per quello che ha detto e fatto. La prima causa della sua morte è esattamente la sua vita. Perchè?
Perchè ha rovesciato tutti i valori della convivenza umana. Gesù Cristo ha
cambiato tutte le carte in tavola della sua società, che era fondamentalmente
costruita sulla separazione. Gesù sostituisce
il principio della separazione con quello della Comunione, tanto che va a mangiare
con i peccatori. Il principio della Comunione con l’altro diventa l’opposto
della separazione, che prevedeva chi è un buon ebreo: un buon credente che si
rispetti deve evitare certe persone, certi luoghi, certi cibi e deve fare
digiuni. Gesù rovescia, scombussola; come dirà San Paolo nella Lettera agli
Efesini “abbatte il muro di separazione che c’era tra l’uno e l’altro”.
Il terzo principio è ama l’altro come te stesso. L’amore per
l’altro era sempre vissuto e rappresentato a partire dal sè. L’amore per
l’altro aveva una finalità in se stesso, era più il sintomo e l’espressione
della mia bontà d’animo e non il segno di una relazione che ha come punto di
riferimento l’altro. Noi dovremmo imparare a vedere l’altro come costitutivo di
noi stessi, perchè non possiamo esistere senza di esso. Non siamo nati da soli,
cresciamo e maturiamo in una relazione dove l’altro è parte di me, mi fa da specchio, perchè io mi vedo e mi
riconosco. Conta il fatto che l’altro diventa la mia stessa possibilità di
esistere, io non posso esistere senza l’altro.
Animare:
tre punti di partenza che costituiscono l’essenza
del Cristo. Tutto ciò porta ad altri principi, per analogia con quanto
fatto da Gesù: sono punti di partenza irrinunciabili, perchè costituiscono
l’essenza e il senso di Gesù Cristo. Il primo è che noi non possiamo che concepirci e leggerci in relazione. Meno siamo in
relazione, più siamo infecondi, incapaci di generare qualche cosa di buono,
positivo e costruttivo; soprattutto a livello cristiano siamo incapaci di
generare comunità.
Un secondo principio
che va recuperato è appunto quello della coscienza
che diventa etica della responsabilità. Anche quando siamo di fronte a
situazioni che ci superano di gran lunga, a problemi enormi, molto più grandi
di noi, che potrebbero indurci alla sensazione di impotenza: che ci possiamo
fare noi rispetto alla fame nel mondo, rispetto alla giustizia, rispetto alla
corruzione dilagante, cosa ci possiamo fare? Anche quando ci troviamo quindi di
fronte a situazioni che hanno una dimensione che va oltre le nostre forze,
continuiamo ad avere una possibile etica
di responsabilità, se non altro piccola, che comincia da noi e da ciò che
sta intorno a noi. All’interno di una società e di una comunità, il fatto che
più persone condividano una visione, un sogno, una prospettiva contagia gli
altri e alla fine può diventare capace di modificare delle situazioni.
Un terzo principio è la
distinzione tra il fare e l’agire.
Noi facciamo molto, siamo molto impegnati come uomini e donne che operano nella
carità, a livello di iniziative, di attività. Il fare, tuttavia, non
corrisponde con l’agire: il fare è diretto alla manualità, alle cose, mentre
l’agire è progettuale. L’agire presuppone un’idea, un pensiero, un punto di
arrivo, una meta. Con il mio agire, dove
voglio arrivare? Cosa desidero tentare di trasformare? L’agire non è fine a
se stesso, ma si pone sempre come un punto di arrivo che poi, ovviamente, va
valutato, verificato o corretto. La sfida di oggi è proprio questa: pensare
l’agire, dare all’agire una finalità.
E’ evidente che papa
Francesco desidera una chiesa povera. Una chiesa che sia ricca della povertà di
Cristo, che metta al centro l’essere più che l’avere, e che sposi la povertà
come dimensione costitutiva della propria presenza nel mondo, secondo lo
spirito delle beatitudini. In questo senso si tratta non soltanto di amare la
povertà ma di opporsi a quei comportamenti che la contrastano. Scegliere la
povertà significa combattere la ricchezza, l’ingiustizia, il potere, la vanità,
il carrierismo. In pratica, essere poveri non equivale soltanto a privarsi dei
beni e delle proprietà, ma di usarli in modo giusto favorendo i poveri.